Il popolo che manca by Nuto Revelli

Il popolo che manca by Nuto Revelli

autore:Nuto Revelli [Revelli, Nuto]
La lingua: ita
Format: epub
Tags: History, Italian, Essays, Foreign Languages, Historical Study & Educational Resources, Historical Study
ISBN: 9788858410844
Google: SYqvAAAAQBAJ
Amazon: B00F107R5K
editore: Giulio Einaudi Editore
pubblicato: 2013-10-08T08:30:33+00:00


I riti matrimoniali.

Se i matrimoni erano combinati? Erano quasi tutti di convenienza, era il soldo che comandava. I sensali dei matrimoni, i rüfian, sapevano dove andare a cercare le ragazze ricche: i rüfian erano molto conosciuti, era proprio un mestiere il loro. Ce n’erano di quelli in gamba e altri che erano ’d baciasaire, ’d turtu53. Al rüfian, se l’affare andava bene, si regalava un foulard giallo o un cappello, si invitava al pranzo di nozze. Roba da rüfian vuole dire roba gialla, un oggetto giallo, ancora oggi. Mio padre diceva sempre: «A fé ’l rüfian l’é pöi na maria cosa, se va ben ses giò pagà, se va mal l’han ’ncu da paghete»54. Se un aspirante sposo aveva dei soldi era piú bello. Se uno aveva solo delle rive contava poco. «Mettetegli cinquecento lire sul culo alle vostre figlie, poi vedrete che si sposano subito», diceva un rüfian a un contadino, a un padre di famiglia povero! (Angela Giusiano)

A diciotto anni mi sono sposata. Allora la tradizione era che la sposa, subito dopo il matrimonio, doveva andare dai suoceri a canté Martina55. La sposa stava fuori dell’uscio, e dall’interno della casa la suocera diceva cantando: «Chi è chi l’ha lí fora?» «Oh sa sun mi madone, sangue del mio, oh sa sun mi madone». «Co t’l’has catà Maddalena?» «’N bel capel madone, sangue del mio, ’n bel capel madone»56. Quando la canzone stava per finire la suocera apriva la porta di casa.

Eh, una volta qui era un po’ come nella bassa Italia adesso. Succedeva che i giovani rubavano le ragazze per sposarle, ne sono capitati tanti casi cosí. (Maddalena Andreis)

Oh, povero me, a Narbona vivevano venticinque famiglie, centocinquanta persone, tutti Arneudo. Facevamo una vita da sbirri, mangiare il pane di segala che cuocevamo una volta all’anno, a Natale; mangiare i’orle, gli spinaci selvatici nella minestra, e le ortiche. E i’assetu, crudi, era solo erba ma avevamo fame, oh povero me. Avevamo due vacche, il piú ricco ne aveva tre quattro. In tutta Narbona c’erano forse quattro famiglie che non prendevano la roba a credito dai negozi, che non facevano debito.

A scuola andavamo al Colletto, anche d’inverno. Partivamo tutti gli scolari di Narbona in gruppo e c’era sempre il pericolo che lungo il cammino ci sorprendesse la valanga.

A vié, nella mia stalla, c’erano magari quindici venti persone: giocavamo a carte, un soldo per mano, a ciamé ’l des. Stavamo allegri, cantavamo. Io ero il primo cantatore. Se ricordo le canzoni di allora? Ricordo la Canzone del Gallo, la cantavamo tanto nelle osterie […]. Oh povero me, allora la gente cantava. Il giorno dell’Assunta lí davanti alla cappella c’era tutto Campomolino ad ascoltare, cantavamo di buona voglia. C’era tanta gioventú. (Magno Arneudo)

Mia mare l’ha nen vulüme pasé ’l cuntent57, allora Censin ha dato mille lire e un barilotto di vino a mio padre e ha avuto il suo cuntent. Dopo siamo andati a piedi al paese, ci siamo sposati prima in Comune, poi in chiesa. Che matrimonio, c’era nessuno contento! Siamo



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